A che gioco giochiamo? 

29 aprile 2023

Perché nella vita ci troviamo spesso in situazioni che si somigliano tra esse? Perché ci è successo di nuovo? Perché, malgrado l’impegno cosciente, ci sembra di “interpretare” sempre lo stesso ruolo? Perché peschiamo sempre la persona sbagliata? Se avete avuto un’interazione simile, è molto probabile che, nel linguaggio dell’analisi transazionale di Eric Berne, steste effettuando un gioco. Più di cinquant’anni fa Eric Berne pubblicò un libro, "A che gioco giochiamo", che diventò un vero e proprio best seller, anche grazie al geniale titolo. Nel saggio l'autore va a indagare quali sono i “ruoli”, i “giochi” e i “copioni” che le persone agiscono nei rapporti interumani. Secondo Berne, ogni volta che le persone prendono parte ad un “gioco psicologico” assumono uno dei tre ruoli del triangolo drammatico di Karpman: Vittima, Persecutore o Salvatore. Questi ruoli sono assunti inconsciamente e implicano il fatto che l'individuo non stia usando pienamente le proprie capacità Adulte. 

I Ruoli 
La vittima svaluta se stessa, si presenta come debole, avvilita. In realtà, sotto sotto, la persona assume il ruolo della Vittima perché così facendo riesce ad ottenere l’attenzione di un Salvatore o di un Persecutore. In questo modo può dipendere da loro senza doversi assumere la responsabilità di sé e dei propri problemi. 
Il persecutore svaluta l’altro, si mostra forte e aggressivo, nascondendo le sue paure. Con tali premesse si comporta in modo svilente e controllante, bistrattando gli altri. I vissuti tipici del Persecutore sono la rabbia e l’insofferenza. 
Il salvatore svaluta gli altri due, esprime bontà cristiana e interesse, annulla i suoi bisogni personali per mettersi al servizio di. In realtà questo gli permette di sentirsi moralmente superiore e di evitare di occuparsi dei propri sentimenti. I vissuti tipici del Salvatore sono la soddisfazione quando riesce ad essere d’aiuto e il senso di colpa quando non vi riesce. 

Durante un “gioco psicologico” le persone cambiano il proprio ruolo all’interno del triangolo drammatico una o più volte, e alla fine tutti i “giocatori” finiscono nel ruolo di Vittima, con un vissuto di frustrazione, di impotenza e di mancanza di speranza. Per Berne, dunque, il gioco non è un’attività libera, ma automatica. Esso è un comportamento ripetitivo (coazione a ripetere) che adottiamo nell’interazione sociale  in base ad un copione appreso nell’infanzia, e che, a causa di messaggi poco chiari, finisce per gettare entrambe le persone partecipanti nella confusione.  I giochi hanno queste caratteristiche:- ripetitività: il gioco preferito è giocato più e più volte, cambiano i giocatori, ma non lo schema;- inconsapevolezza: i giochi sono giocati da genitore e bambino all’insaputa dell’adulto;- negatività: alla fine del gioco si sperimentano emozioni spiacevoli;- scambio di ruoli: ad un certo punto del gioco deve avvenire uno scambio di transazioni (colpo di scena);- confusione: i giochi comportano un livello di sorpresa o confusione, derivato dallo scambio di ruoli. Eric Berne ha descritto originariamente qualche decina di “giochi psicologici” ai quali, in seguito, diversi autori ne hanno aggiunti altri. Di seguito tentiamo di descrivere alcuni dei “giochi” maggiormente diffusi. “Perché non… Sì, ma”. E’ un “gioco” molto diffuso in cui c’è una persona nel ruolo di Vittima ed una o più nel ruolo di Salvatore. La Vittima presenta un problema e il Salvatore propone soluzioni, tutte bocciate per questo o quel motivo dalla Vittima, che risponde ogni volta con un “Sì, ma”. In genere i Salvatori finiscono presto o tardi per cambiare ruolo e per scivolare nel ruolo di Vittima (“Mi dispiace, cercavo solo di aiutarti!”) o nel Persecutore (“Ora mi hai stufato!”). Anche la Vittima può cambiare di ruolo e, eventualmente, passare nel ruolo di Persecutore (“E certo, per te è facile parlare”).Ovviamente la Vittima non ha alcuna intenzione di risolvere il proprio problema, gioca piuttosto per convincere anche gli altri che il proprio problema è irresolubile, e mantenersi così nel ruolo di Vittima indefinitamente.“Gamba di legno”.La persona utilizza il proprio disagio per Vittimizzarsi, sfruttando il fatto di avere un limite, come scusa per giustificare la propria mancanza di motivazione nell’affrontare i problemi: “Che cosa pretendete da uno che ha una gamba di legno?”. La Vittima allora incontra un Salvatore che vorrebbe tanto essere d’aiuto, ma finisce per cadere nel tranello e per credere alla tesi della Vittima: “Sì, hai proprio ragione, la tua gamba di legno è un ostacolo insormontabile!”. A questo punto il Salvatore stesso comincia a sentirsi impotente, e scivola anch’egli nel ruolo di Vittima.Anche in questo caso la Vittima gioca per cercare giustificazioni al proprio non agire o una scusa per non affrontare le proprie paure.“Guarda che mi hai fatto fare”.In questo “gioco” il personaggio principale è una persona che ce l’ha con se stessa ma non ne è consapevole, sente solo rabbia. Non appena altre persone attorno a lei fanno o dicono qualcosa, questi prende la palla al balzo per compiere un errore e biasimare gli altri scaricando su di loro la responsabilità dell’errore.Ad esempio, un padre torna a casa frustrato e stanco dopo una giornata di lavoro e comincia a preparare controvoglia la cena. Un figlio entra in cucina salutandolo e lui “fa cadere” in terra un piatto. Finalmente qualcuno con cui prendersela: “Guarda cosa mi hai fatto fare!”.Il giocatore principale passa in sequenza dalla posizione iniziale di Vittima (“Non sono capace”), a quella di Persecutore (“E’ tutta colpa tua”), a quella finale di Vittima (“Nessuno mi aiuta mai”).“Prendimi a calci”.In questo “gioco” c’è una persona che si comporta in modo irritante. Ad esempio, arriva in ritardo, non risponde al telefono o “si dimentica” di richiamare.La persona, in realtà, sotto sotto gode dell’irritazione altrui perché questo le dà un senso di potere e di controllo. In tal senso esercita un ruolo di Persecutore sugli altri.Quando, presto o tardi – ciò è pressoché inevitabile –, qualcuno reagisce con rabbia attaccandola verbalmente, la persona può risentirsi, chiedendosi: “Perché queste cose capitano sempre a me?” e sentirsi una Vittima.“Stupido”.In questo gioco una persona intelligente, sembra compiere intenzionalmente degli errori comportandosi in modo sbadato: “Ops! Mi sono dimenticato di comprare il regalo di compleanno a mia madre...".Fino a che un’altra persona passa nel ruolo di Persecutore e esplode: “Ma certo che sei proprio scemo!”.In realtà lo scopo del primo giocatore è quello di mantenersi nel ruolo di Vittima e di evitare le proprie responsabilità – prendere delle decisioni o fare le cose per bene – “Perché in fondo sono uno stupido”. "Ti ho beccato figlio di p***” In questo gioco c’è una persona che si pone come Vittima, accettando ad esempio delle relazioni negative e svalutanti (tradimenti, violenze, insulti). Ad un certo punto, quando l’altro abbocca, il giocatore si trasforma in Persecutore e scompare, ad esempio lascia il partner con un biglietto e non cede quando l’altro fa di tutto per riconquistare terreno. Quando fa così non si sente in colpa, anzi, in qualche modo si sente trionfante. Ciò nondimeno comincia un rapporto con una persona nuova e l’intera sequenza viene riproposta un’altra volta. Il motto di questo gioco è “Io sarò dolce e paziente. Ma aspetta che ti becchi!”.Se i giochi sono così estenuanti, perché giochiamo?Un gioco rappresenta la migliore strategia che un bambino ha per ottenere qualcosa dal mondo. Quando effettuiamo dei giochi nell’età adulta stiamo cercando di esaudire un bisogno del Bambino che eravamo e lo esprimiamo nel modo che abbiamo imparato in famiglia. In sostanza, manipoliamo l’ambiente creando situazioni comportanti “emozioni parassite”, con l’obiettivo di ottenere il sostegno genitoriale che ottenevamo nell’infanzia. E’ sempre questa la funzione dei giochi nell’età adulta: riproporre, inconsciamente, una vecchia strategia infantile.In genere, è difficile lasciare andare i ruoli e – di conseguenza – i “giochi” che utilizziamo di solito. Questo perché ruoli e “giochi”, oltre a rappresentare una fonte stabile di attenzioni, tendono a definire la nostra identità. In altre parole, le persone fanno fatica ad allontanarsene perché temono di rinunciare ad una parte importante di se stesse.Il processo di presa di consapevolezza e di acquisizione di nuove e migliori strategie, passa inevitabilmente da un percorso di psicoterapia.

L'agorafobia

28 aprile 2023


Oggi parliamo di AGORAFOBIA.

Il termine agorafobia deriva dal greco “Agorà”, che significa piazza; infatti, i primi utilizzi scientifici della parola in psicologia e psichiatria si rivolgevano specificatamente a persone che mostravano paura di recarsi in luoghi affollati. Oggi invece, quando si fa una diagnosi di agorafobia, si tende a indicare quei pazienti che temono tutte le situazioni da cui sarebbe difficile scappare o ricevere soccorso nel caso sopraggiungesse una crisi. Tutto ciò li conduce a evitare tali luoghi, al fine di controllare l’ansia.
In soldoni, le persone che soffrono di agorafobia vivono pensieri relativi al fatto che potrebbe accadere loro qualcosa di terribile se si recassero in un determinato contesto: “Non posso fuggire”, “Non posso uscire”, “Non c’è nessuno che mi potrebbe aiutare”. Questo porta a un progressivo isolamento e – spesso – a una definitiva chiusura in casa. Diventa impossibile anche scendere al supermercato.
Tuttavia, l’agorafobia dobbiamo considerarla un disturbo secondario, che emerge in seguito ad ansia e panico, per questo è fondamentale lavorare sulla prevenzione tramite la psicoterapia, prima di arrivare a degenerazioni più difficili da trattare senza farmaci.
Quali sono le situazioni che che più frequentemente vengono evitate da chi mostra sintomi di agorafobia?
- uscire da soli o stare a casa da soli;
- guidare – soprattutto in autostrada – o viaggiare in automobile;
- frequentare luoghi affollati come mercati, cinema, concerti;
- prendere l’autobus o l’aeroplano;
- essere su un ponte o in ascensore;
Quando questi evitamenti iniziano a compromettere le attività quotidiane ed il funzionamento socio-lavorativo della persona, allora si può fare una diagnosi di agorafobia. La diagnosi non è semplicissima, perché a volte il problema diventa difficile da enucleare in quanto il soggetto non evita del tutto le situazioni temute, ma diviene semplicemente incapace di affrontarle da solo, senza l’assistenza di una persona di fiducia da cui sviluppa una dipendenza.
Gli evitamenti e i comportamenti protettivi, nonostante nel breve periodo possano rivelarsi utili per il contenimento del soggetto, nel lungo periodo sono dannosissimi, in quanto non permettono di affrontare il disagio e rappresentano dei potenti fattori di mantenimento del disturbo stesso.

Secondo il DSM-5, questi sono i sintomi da riconoscere per fare una corretta diagnosi, persistenti per un minimo di 6 mesi. Impossibilità di:
- Usare i mezzi pubblici
- Trovarsi in spazi aperti (parcheggi, mercati…)
- Trovarsi in un luogo chiuso (una calleria, negozi, teatro…)
- Fare la fila o trovarsi in mezzo alla folla
- Trovarsi soli fuori casa
La paura deve coinvolgere pensieri come una possibile difficoltà nella fuga o l’impossibilità di ricevere aiuto in caso la paura o un attacco di panico sopraggiungesse.
In aggiunta:
- Le stesse situazioni devono innescare con regolarità paura o ansia.
- I pazienti si devono impegnare attivamente per evitare la situazione e/o richiedere la presenza di un compagno.
- La paura o l'ansia devono essere sproporzionate rispetto alla minaccia reale (tenendo conto delle norme socio-culturali).
- La paura, l'ansia, e/o l'elusione devono causare disagio significativo o compromettere significativamente il funzionamento sociale o lavorativo.

Il trattamento elitario per la cura dell’agorafobia è la psicoterapia. Tecniche cognitivo-comportamentali possono essere utili d’impatto per bloccare la sintomatologia conclamata; l’intervento si avvale di strategie di esposizione enterocettiva per modificare l’interpretazione erronea dei sintomi temuti, in combinazione con l’utilizzo di metodologie di rilassamento e corretta respirazione per il controllo dell’ansia.
Ma a mio avviso è poi indispensabile un approccio psicodinamico per andare a scavare oltre il sintomo, al fine di capire cosa ha determinato il suo innestarsi. Intervenire solo in superficie sul sintomo, potrebbe infatti comportare sì la risoluzione del problema, ma non andando a indagare le dinamiche inconsce, il problema si potrebbe poi ripresentare in altra veste tramite il meccanismo dello spostamento.


Gli attacchi di panico

25 aprile 2023

Oggi proveremo a chiarire meglio cosa sono gli ATTACCHI DI PANICO.


Gli attacchi (o crisi) di panico sono episodi di imprevisto ed intenso terrore, o di una rapida escalation dell’ansia normalmente presente. Sono accompagnati da sintomi somatici (palpitazioni, eccessiva e improvvisa sudorazione, tremore, sensazione di soffocamento, dolore al petto, nausea, vertigini…) e cognitivi (impossibilità di razionalizzare, convinzione di essere in procinto di morire, pensieri catastrofici automatici e incontrollati). Non tutti i sintomi chiaramente sono necessari in concomitanza perché si tratti di un attacco di panico. Vi sono molti attacchi caratterizzati solo o in particolare da alcuni di questi sintomi. La frequenza e la gravità di essi varia ampiamente nel corso del tempo e delle circostanze. Anche grazie alle tecniche che il paziente è capace di imparare per gestirli al meglio.

Chi ha sofferto di attacchi di panico li descrive come un’esperienza angosciante, soprattutto il primo è sostanzialmente indimenticabile, proprio perché inatteso e impossibile da gestire. Non è insolito finire al pronto soccorso quando è in corso la prima crisi. Alcuni temono che gli attacchi indichino la presenza di una malattia non diagnosticata, pericolosa (per esempio cardiopatia o epilessia). Nonostante i ripetuti esami medici e le rassicurazioni, spesso gli individui possono rimanere impauriti e convinti di essere fisicamente vulnerabili. Da lì in poi, la paura che un nuovo attacco possa sopraggiungere, diventa forte e dominante, e può innescare nell’individuo una forte limitazione nello svolgimento delle attività quotidiane, che diventano un peso insopportabile.
La persona cioè, si trova rapidamente invischiata in un tremendo circolo vizioso, che spesso si porta dietro la cosiddetta “agorafobia”. Ovvero l’ansia relativa all’essere in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile o imbarazzante allontanarsi, o nei quali potrebbe non essere disponibile un aiuto, nel caso di un attacco di panico inaspettato.
L’evitamento di tutte le situazioni potenzialmente ansiogene diviene la modalità prevalente di comportamento, ed il paziente resta letteralmente “schiavo del panico”. Costringe spesso tutti i familiari ad adattarsi di conseguenza, a non lasciarlo mai solo e ad accompagnarlo ovunque. Ne consegue un senso di frustrazione che deriva dal fatto di essere dipendente dagli altri, che può condurre ad una depressione secondaria.
Il DSM-5 inserisce i Disturbi di panico all’interno del capitolo dei Disturbi d’ansia, e stabilisce che per fare una diagnosi di disturbi di panico sono sufficienti almeno due attacchi inaspettati e ravvicinati. Il termine “inaspettati” sta a significare che, apparentemente, non si evidenziano cause scatenanti l’attacco.
Dicevamo che, per fare diagnosi di disturbo di panico, secondo il DSM-5, devono essere presenti almeno 4 dei seguenti sintomi prima o durante gli attacchi:
- palpitazioni o tachicardia
- sudorazione
- tremori
- sensazione di fiato corto o di fatica nel respirare
- sensazione di soffocamento
- dolore retrosternale
- nausea o dolori addominali
- vertigini, sensazione di instabilità, testa leggera o sensazione di svenimento
- brividi o vampate di calore
- parestesie (sensazioni di formicolio o di intorpidimento)
- derealizzazione (sensazioni di irrealtà) o depersonalizzazione (sentirsi separato da se stesso)
- sensazione di perdita del controllo o di “diventare matto”
- paura di morire

Inoltre, per almeno un mese, il soggetto deve presentare una persistente paura e preoccupazione di avere altri attacchi. Questo determina una riduzione della qualità di vita del soggetto, sociale o lavorativa.

Quali sono le cause degli attacchi di panico?
Le cause degli attacchi di panico possono essere davvero molto diverse tra loro. In genere, il primo attacco si verifica durante un periodo particolarmente stressante per l’individuo. Lo stress può essere dovuto ad un evento acuto oppure alla presenza di numerosi fattori concomitanti. Le principali cause di un attacco di panico riportate dalla letteratura scientifica, sono:
- lutti
- malattie gravi
- cambiamenti importanti nella vita (matrimonio, lavoro, separazioni)
- periodi di iperlavoro o di scarso riposo
- situazioni relazionali altamente conflittuali
- cambiamenti di ruolo (ad es. il pensionamento)
- traumi non elaborati
- problematiche finanziarie

Per la cura degli attacchi di panico, con o senza agorafobia, e dei disturbi d’ansia in generale, la forma elitaria di intervento è la PSICOTERAPIA. Per il paziente spesso il panico è la molla che lo conduce a valicare lo studio di uno psicologo, proprio per la sua ingestibilità. E da lì deve partire un lavoro molto intenso – in ottica psicodinamica – per arrivare a comprendere le ragioni più profonde che hanno condotto al panico, andando oltre le cause immediatamente scatenanti. Nella misura in cui l'attacco di panico non è soltanto un attacco di panico, bensì la spia di un grandissimo disagio psichico a lungo trascurato.

La cura farmacologica del panico e dell’agorafobia, per quanto a mio avviso sconsigliabile come UNICO trattamento, si basa fondamentalmente su due classi di farmaci: benzodiazepine e antidepressivi, spesso impiegati in associazione dagli psichiatri.


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A che gioco giochiamo? 

Perché nella vita ci troviamo spesso in situazioni che si somigliano tra esse?Perché ci è successo di nuovo?Perché, malgrado l’impegno cosciente, ci sembra di “interpretare” sempre lo stesso ruolo?Perché peschiamo sempre la persona sbagliata?Se avete avuto un’interazione simile, è molto probabile che, nel linguaggio dell’analisi transazionale di Eric Berne, steste effettuando un gioco.Più di cinquant’anni fa Eric Berne pubblicò un libro, "A che gioco giochiamo", che diventò un vero e proprio best seller, anche grazie al geniale titolo.Nel saggio l'autore va a indagare quali sono i “ruoli”, i “giochi” e i “copioni” che le persone agiscono nei rapporti interumani.Secondo Berne, ogni volta che le persone prendono parte ad un “gioco psicologico” assumono uno dei tre ruoli del triangolo drammatico di Karpman: Vittima, Persecutore o Salvatore.Questi ruoli sono assunti inconsciamente e implicano il fatto che l'individuo non stia usando pienamente le proprie capacità Adulte.I RuoliLa vittima svaluta se stessa, si presenta come debole, avvilita. In realtà, sotto sotto, la persona assume il ruolo della Vittima perché così facendo riesce ad ottenere l’attenzione di un Salvatore o di un Persecutore. In questo modo può dipendere da loro senza doversi assumere la responsabilità di sé e dei propri problemi. Il persecutore svaluta l’altro, si mostra forte e aggressivo, nascondendo le sue paure. Con tali premesse si comporta in modo svilente e controllante, bistrattando gli altri. I vissuti tipici del Persecutore sono la rabbia e l’insofferenza.Il salvatore svaluta gli altri due, esprime bontà cristiana e interesse, annulla i suoi bisogni personali per mettersi al servizio di. In realtà questo gli permette di sentirsi moralmente superiore e di evitare di occuparsi dei propri sentimenti. I vissuti tipici del Salvatore sono la soddisfazione quando riesce ad essere d’aiuto e il senso di colpa quando non vi riesce.Durante un “gioco psicologico” le persone cambiano il proprio ruolo all’interno del triangolo drammatico una o più volte, e alla fine tutti i “giocatori” finiscono nel ruolo di Vittima, con un vissuto di frustrazione, di impotenza e di mancanza di speranza.Per Berne, dunque, il gioco non è un’attività libera, ma automatica. Esso è un comportamento ripetitivo (coazione a ripetere) che adottiamo nell’interazione sociale  in base ad un copione appreso nell’infanzia, e che, a causa di messaggi poco chiari, finisce per gettare entrambe le persone partecipanti nella confusione.  I giochi hanno queste caratteristiche:- ripetitività: il gioco preferito è giocato più e più volte, cambiano i giocatori, ma non lo schema;- inconsapevolezza: i giochi sono giocati da genitore e bambino all’insaputa dell’adulto;- negatività: alla fine del gioco si sperimentano emozioni spiacevoli;- scambio di ruoli: ad un certo punto del gioco deve avvenire uno scambio di transazioni (colpo di scena);- confusione: i giochi comportano un livello di sorpresa o confusione, derivato dallo scambio di ruoli.Eric Berne ha descritto originariamente qualche decina di “giochi psicologici” ai quali, in seguito, diversi autori ne hanno aggiunti altri.Di seguito tentiamo di descrivere alcuni dei “giochi” maggiormente diffusi.“Perché non… Sì, ma”.E’ un “gioco” molto diffuso in cui c’è una persona nel ruolo di Vittima ed una o più nel ruolo di Salvatore. La Vittima presenta un problema e il Salvatore propone soluzioni, tutte bocciate per questo o quel motivo dalla Vittima, che risponde ogni volta con un “Sì, ma”. In genere i Salvatori finiscono presto o tardi per cambiare ruolo e per scivolare nel ruolo di Vittima (“Mi dispiace, cercavo solo di aiutarti!”) o nel Persecutore (“Ora mi hai stufato!”). Anche la Vittima può cambiare di ruolo e, eventualmente, passare nel ruolo di Persecutore (“E certo, per te è facile parlare”).Ovviamente la Vittima non ha alcuna intenzione di risolvere il proprio problema, gioca piuttosto per convincere anche gli altri che il proprio problema è irresolubile, e mantenersi così nel ruolo di Vittima indefinitamente.“Gamba di legno”.La persona utilizza il proprio disagio per Vittimizzarsi, sfruttando il fatto di avere un limite, come scusa per giustificare la propria mancanza di motivazione nell’affrontare i problemi: “Che cosa pretendete da uno che ha una gamba di legno?”. La Vittima allora incontra un Salvatore che vorrebbe tanto essere d’aiuto, ma finisce per cadere nel tranello e per credere alla tesi della Vittima: “Sì, hai proprio ragione, la tua gamba di legno è un ostacolo insormontabile!”. A questo punto il Salvatore stesso comincia a sentirsi impotente, e scivola anch’egli nel ruolo di Vittima.Anche in questo caso la Vittima gioca per cercare giustificazioni al proprio non agire o una scusa per non affrontare le proprie paure.“Guarda che mi hai fatto fare”.In questo “gioco” il personaggio principale è una persona che ce l’ha con se stessa ma non ne è consapevole, sente solo rabbia. Non appena altre persone attorno a lei fanno o dicono qualcosa, questi prende la palla al balzo per compiere un errore e biasimare gli altri scaricando su di loro la responsabilità dell’errore.Ad esempio, un padre torna a casa frustrato e stanco dopo una giornata di lavoro e comincia a preparare controvoglia la cena. Un figlio entra in cucina salutandolo e lui “fa cadere” in terra un piatto. Finalmente qualcuno con cui prendersela: “Guarda cosa mi hai fatto fare!”.Il giocatore principale passa in sequenza dalla posizione iniziale di Vittima (“Non sono capace”), a quella di Persecutore (“E’ tutta colpa tua”), a quella finale di Vittima (“Nessuno mi aiuta mai”).“Prendimi a calci”.In questo “gioco” c’è una persona che si comporta in modo irritante. Ad esempio, arriva in ritardo, non risponde al telefono o “si dimentica” di richiamare.La persona, in realtà, sotto sotto gode dell’irritazione altrui perché questo le dà un senso di potere e di controllo. In tal senso esercita un ruolo di Persecutore sugli altri.Quando, presto o tardi – ciò è pressoché inevitabile –, qualcuno reagisce con rabbia attaccandola verbalmente, la persona può risentirsi, chiedendosi: “Perché queste cose capitano sempre a me?” e sentirsi una Vittima.“Stupido”.In questo gioco una persona intelligente, sembra compiere intenzionalmente degli errori comportandosi in modo sbadato: “Ops! Mi sono dimenticato di comprare il regalo di compleanno a mia madre...".Fino a che un’altra persona passa nel ruolo di Persecutore e esplode: “Ma certo che sei proprio scemo!”.In realtà lo scopo del primo giocatore è quello di mantenersi nel ruolo di Vittima e di evitare le proprie responsabilità – prendere delle decisioni o fare le cose per bene – “Perché in fondo sono uno stupido”."Ti ho beccato figlio di p***”In questo gioco c’è una persona che si pone come Vittima, accettando ad esempio delle relazioni negative e svalutanti (tradimenti, violenze, insulti). Ad un certo punto, quando l’altro abbocca, il giocatore si trasforma in Persecutore e scompare, ad esempio lascia il partner con un biglietto e non cede quando l’altro fa di tutto per riconquistare terreno. Quando fa così non si sente in colpa, anzi, in qualche modo si sente trionfante. Ciò nondimeno comincia un rapporto con una persona nuova e l’intera sequenza viene riproposta un’altra volta. Il motto di questo gioco è “Io sarò dolce e paziente. Ma aspetta che ti becchi!”.Se i giochi sono così estenuanti, perché giochiamo?Un gioco rappresenta la migliore strategia che un bambino ha per ottenere qualcosa dal mondo. Quando effettuiamo dei giochi nell’età adulta stiamo cercando di esaudire un bisogno del Bambino che eravamo e lo esprimiamo nel modo che abbiamo imparato in famiglia. In sostanza, manipoliamo l’ambiente creando situazioni comportanti “emozioni parassite”, con l’obiettivo di ottenere il sostegno genitoriale che ottenevamo nell’infanzia. E’ sempre questa la funzione dei giochi nell’età adulta: riproporre, inconsciamente, una vecchia strategia infantile.In genere, è difficile lasciare andare i ruoli e – di conseguenza – i “giochi” che utilizziamo di solito. Questo perché ruoli e “giochi”, oltre a rappresentare una fonte stabile di attenzioni, tendono a definire la nostra identità. In altre parole, le persone fanno fatica ad allontanarsene perché temono di rinunciare ad una parte importante di se stesse.Il processo di presa di consapevolezza e di acquisizione di nuove e migliori strategie, passa inevitabilmente da un percorso di psicoterapia.


Il processo degli psicologi? 

 

Recentemente ho visto la docuserie "Veleno", una ricostruzione abbastanza puntuale dei fatti risalenti a metà anni 90, relativi ai cosiddetti Diavoli della bassa modenese. Impossibile prendere una posizione ed esporla in un post, considerando la complessità e l'articolazione lunghissima della vicenda. Eppure ci sono alcune cose di questa storia veramente pazzesche, irripetibili e che mi hanno colpito in profondità in quanto psicologo. In quei processi gli psicologi e gli assistenti sociali della Asl ebbero in tribunale un ruolo quantomeno sovrano. Sostanzialmente potremmo arrivare a dire che non vi fu un vero processo perché i racconti dei bambini, nel loro orrore, furono tautologicamente presi per veri - anche se mai è stata rinvenuta una prova tangibile sui luoghi degli abusi o nelle case degli imputati -, e le domande che gli avvocati della difesa scrivevano su dei foglietti affinché fossero rivolte ai bimbi, erano filtrate dagli psicologi che decidevano cosa fosse lecito chiedere e cosa no. Quindi non ci fu contraddittorio in aula, non ci fu incontro fra genitori e figli, imputati e accusanti non si videro mai, e senza contraddittorio per me non esiste un processo. Alla luce delle rivelazioni del "bambino zero", che a distanza di circa 20 anni ha confessato di essere stato forzato dagli psicologi a dire alcune cose, mi chiedo dove stia la verità. L'accusa aveva dalla sua parte anche le perizie mediche, mentre all'epoca non erano ammesse perizie di parte per casi di questo tipo. I segni rinvenuti erano "compatibili" con le violenze, ma non certificavano al di là di ogni ragionevole dubbio, un esercizio di violenza. Eppure tanto è bastato per condanne pesantissime, arricchite da infarti e suicidi. Compatto fu lo schieramento della comunità a favore dei familiari, tanto da additare i servizi sociali come criminali e ladri di bambini, arrivando quasi alla psicosi collettiva. Di certo i racconti dei bambini erano agghiaccianti, terrificanti anche solo da ripetere, talmente circostanziati e giustapponibili che ritenerli parto di fantasticherie infantili sembrerebbe impossibile. Diciamo salomonicamente che non avrei voluto trovarmi al posto dei giudici.

In ogni caso complimenti a Trincia per il suo meraviglioso podcast con cui ha riaperto il vaso di Pandora su uno dei casi giudiziari più incredibili della nostra Repubblica. 


L'agorafobia

Oggi parliamo di AGORAFOBIA.

Il termine agorafobia deriva dal greco “Agorà”, che significa piazza; infatti, i primi utilizzi scientifici della parola in psicologia e psichiatria si rivolgevano specificatamente a persone che mostravano paura di recarsi in luoghi affollati. Oggi invece, quando si fa una diagnosi di agorafobia, si tende a indicare quei pazienti che temono tutte le situazioni da cui sarebbe difficile scappare o ricevere soccorso nel caso sopraggiungesse una crisi. Tutto ciò li conduce a evitare tali luoghi, al fine di controllare l’ansia.
In soldoni, le persone che soffrono di agorafobia vivono pensieri relativi al fatto che potrebbe accadere loro qualcosa di terribile se si recassero in un determinato contesto: “Non posso fuggire”, “Non posso uscire”, “Non c’è nessuno che mi potrebbe aiutare”. Questo porta a un progressivo isolamento e – spesso – a una definitiva chiusura in casa. Diventa impossibile anche scendere al supermercato.
Tuttavia, l’agorafobia dobbiamo considerarla un disturbo secondario, che emerge in seguito ad ansia e panico, per questo è fondamentale lavorare sulla prevenzione tramite la psicoterapia, prima di arrivare a degenerazioni più difficili da trattare senza farmaci.
Quali sono le situazioni che che più frequentemente vengono evitate da chi mostra sintomi di agorafobia?
- uscire da soli o stare a casa da soli;
- guidare – soprattutto in autostrada – o viaggiare in automobile;
- frequentare luoghi affollati come mercati, cinema, concerti;
- prendere l’autobus o l’aeroplano;
- essere su un ponte o in ascensore;
Quando questi evitamenti iniziano a compromettere le attività quotidiane ed il funzionamento socio-lavorativo della persona, allora si può fare una diagnosi di agorafobia. La diagnosi non è semplicissima, perché a volte il problema diventa difficile da enucleare in quanto il soggetto non evita del tutto le situazioni temute, ma diviene semplicemente incapace di affrontarle da solo, senza l’assistenza di una persona di fiducia da cui sviluppa una dipendenza.
Gli evitamenti e i comportamenti protettivi, nonostante nel breve periodo possano rivelarsi utili per il contenimento del soggetto, nel lungo periodo sono dannosissimi, in quanto non permettono di affrontare il disagio e rappresentano dei potenti fattori di mantenimento del disturbo stesso.

Secondo il DSM-5, questi sono i sintomi da riconoscere per fare una corretta diagnosi, persistenti per un minimo di 6 mesi. Impossibilità di:
- Usare i mezzi pubblici
- Trovarsi in spazi aperti (parcheggi, mercati…)
- Trovarsi in un luogo chiuso (una calleria, negozi, teatro…)
- Fare la fila o trovarsi in mezzo alla folla
- Trovarsi soli fuori casa
La paura deve coinvolgere pensieri come una possibile difficoltà nella fuga o l’impossibilità di ricevere aiuto in caso la paura o un attacco di panico sopraggiungesse.
In aggiunta:
- Le stesse situazioni devono innescare con regolarità paura o ansia.
- I pazienti si devono impegnare attivamente per evitare la situazione e/o richiedere la presenza di un compagno.
- La paura o l'ansia devono essere sproporzionate rispetto alla minaccia reale (tenendo conto delle norme socio-culturali).
- La paura, l'ansia, e/o l'elusione devono causare disagio significativo o compromettere significativamente il funzionamento sociale o lavorativo.

Il trattamento elitario per la cura dell’agorafobia è la psicoterapia. Tecniche cognitivo-comportamentali possono essere utili d’impatto per bloccare la sintomatologia conclamata; l’intervento si avvale di strategie di esposizione enterocettiva per modificare l’interpretazione erronea dei sintomi temuti, in combinazione con l’utilizzo di metodologie di rilassamento e corretta respirazione per il controllo dell’ansia.
Ma a mio avviso è poi indispensabile un approccio psicodinamico per andare a scavare oltre il sintomo, al fine di capire cosa ha determinato il suo innestarsi. Intervenire solo in superficie sul sintomo, potrebbe infatti comportare sì la risoluzione del problema, ma non andando a indagare le dinamiche inconsce, il problema si potrebbe poi ripresentare in altra veste tramite il meccanismo dello spostamento.

Gli attacchi di panico

Oggi proveremo a chiarire meglio cosa sono gli ATTACCHI DI PANICO.

Gli attacchi (o crisi) di panico sono episodi di imprevisto ed intenso terrore, o di una rapida escalation dell’ansia normalmente presente. Sono accompagnati da sintomi somatici (palpitazioni, eccessiva e improvvisa sudorazione, tremore, sensazione di soffocamento, dolore al petto, nausea, vertigini…) e cognitivi (impossibilità di razionalizzare, convinzione di essere in procinto di morire, pensieri catastrofici automatici e incontrollati). Non tutti i sintomi chiaramente sono necessari in concomitanza perché si tratti di un attacco di panico. Vi sono molti attacchi caratterizzati solo o in particolare da alcuni di questi sintomi. La frequenza e la gravità di essi varia ampiamente nel corso del tempo e delle circostanze. Anche grazie alle tecniche che il paziente è capace di imparare per gestirli al meglio.

Chi ha sofferto di attacchi di panico li descrive come un’esperienza angosciante, soprattutto il primo è sostanzialmente indimenticabile, proprio perché inatteso e impossibile da gestire. Non è insolito finire al pronto soccorso quando è in corso la prima crisi. Alcuni temono che gli attacchi indichino la presenza di una malattia non diagnosticata, pericolosa (per esempio cardiopatia o epilessia). Nonostante i ripetuti esami medici e le rassicurazioni, spesso gli individui possono rimanere impauriti e convinti di essere fisicamente vulnerabili. Da lì in poi, la paura che un nuovo attacco possa sopraggiungere, diventa forte e dominante, e può innescare nell’individuo una forte limitazione nello svolgimento delle attività quotidiane, che diventano un peso insopportabile.
La persona cioè, si trova rapidamente invischiata in un tremendo circolo vizioso, che spesso si porta dietro la cosiddetta “agorafobia”. Ovvero l’ansia relativa all’essere in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile o imbarazzante allontanarsi, o nei quali potrebbe non essere disponibile un aiuto, nel caso di un attacco di panico inaspettato.
L’evitamento di tutte le situazioni potenzialmente ansiogene diviene la modalità prevalente di comportamento, ed il paziente resta letteralmente “schiavo del panico”. Costringe spesso tutti i familiari ad adattarsi di conseguenza, a non lasciarlo mai solo e ad accompagnarlo ovunque. Ne consegue un senso di frustrazione che deriva dal fatto di essere dipendente dagli altri, che può condurre ad una depressione secondaria.
Il DSM-5 inserisce i Disturbi di panico all’interno del capitolo dei Disturbi d’ansia, e stabilisce che per fare una diagnosi di disturbi di panico sono sufficienti almeno due attacchi inaspettati e ravvicinati. Il termine “inaspettati” sta a significare che, apparentemente, non si evidenziano cause scatenanti l’attacco.
Dicevamo che, per fare diagnosi di disturbo di panico, secondo il DSM-5, devono essere presenti almeno 4 dei seguenti sintomi prima o durante gli attacchi:
- palpitazioni o tachicardia
- sudorazione
- tremori
- sensazione di fiato corto o di fatica nel respirare
- sensazione di soffocamento
- dolore retrosternale
- nausea o dolori addominali
- vertigini, sensazione di instabilità, testa leggera o sensazione di svenimento
- brividi o vampate di calore
- parestesie (sensazioni di formicolio o di intorpidimento)
- derealizzazione (sensazioni di irrealtà) o depersonalizzazione (sentirsi separato da se stesso)
- sensazione di perdita del controllo o di “diventare matto”
- paura di morire

Inoltre, per almeno un mese, il soggetto deve presentare una persistente paura e preoccupazione di avere altri attacchi. Questo determina una riduzione della qualità di vita del soggetto, sociale o lavorativa.

Quali sono le cause degli attacchi di panico?
Le cause degli attacchi di panico possono essere davvero molto diverse tra loro. In genere, il primo attacco si verifica durante un periodo particolarmente stressante per l’individuo. Lo stress può essere dovuto ad un evento acuto oppure alla presenza di numerosi fattori concomitanti. Le principali cause di un attacco di panico riportate dalla letteratura scientifica, sono:
- lutti
- malattie gravi
- cambiamenti importanti nella vita (matrimonio, lavoro, separazioni)
- periodi di iperlavoro o di scarso riposo
- situazioni relazionali altamente conflittuali
- cambiamenti di ruolo (ad es. il pensionamento)
- traumi non elaborati
- problematiche finanziarie

Per la cura degli attacchi di panico, con o senza agorafobia, e dei disturbi d’ansia in generale, la forma elitaria di intervento è la PSICOTERAPIA. Per il paziente spesso il panico è la molla che lo conduce a valicare lo studio di uno psicologo, proprio per la sua ingestibilità. E da lì deve partire un lavoro molto intenso – in ottica psicodinamica – per arrivare a comprendere le ragioni più profonde che hanno condotto al panico, andando oltre le cause immediatamente scatenanti. Nella misura in cui l'attacco di panico non è soltanto un attacco di panico, bensì la spia di un grandissimo disagio psichico a lungo trascurato.

La cura farmacologica del panico e dell’agorafobia, per quanto a mio avviso sconsigliabile come UNICO trattamento, si basa fondamentalmente su due classi di farmaci: benzodiazepine e antidepressivi, spesso impiegati in associazione dagli psichiatri.